La bambina che non c’è

Tutti i pomeriggi Angela disobbediva al padre: si avvicinava alla finestra e sbirciava tra le tendine di tessuto pesante.

Guardava i bambini che giocavano nel cortile sotto casa. C’erano: Paolo, Giorgio, Clara, Stefano, Sara e anche la piccola Anna che camminava appena. In realtà non li conosceva se non attraverso il vetro della finestra del monolocale al secondo piano di un palazzone in periferia di Basilea dove si era trasferita con il padre, l’unico genitore che le era rimasto. Quei ragazzini, che parlavano una lingua per lei incomprensibile e dai nomi impronunciabili, erano diventati la sua unica compagnia. Per praticità li aveva chiamati come gli amici che aveva lasciato a Sommacampagna. Avrebbe voluto scendere a giocare con loro, correre spensierata all’aria aperta, sentire il sole caldo sulla pelle e gridare a squarciagola il suo nome così che tutti sapessero di lei, così che tutti potessero vederla. Ma non poteva.  

«Angelina, mi raccomando, non devi fare rumore, non ti accostare per nessun motivo alla finestra e, cosa importantissima, non aprire mai e poi mai la porta. I vicini sono sospettosi e sanno che qui vivo solo io e torno la sera tardi, se ti scoprono vanno dritti a denunciarti alla polizia. Lo so che è difficile per te stare da sola tutto il giorno, ma ho bisogno di questo lavoro e non voglio che ci separino.  Resisti e presto torneremo a casa. Fidati di me», le ripeteva il padre ogni mattina prima di andare a lavorare in fabbrica. Le aveva spiegato che la legge svizzera non permetteva agli italiani immigrati con un contratto stagionale di portare i figli nel paese. Avevano fatto un lungo viaggio in macchina per arrivare lì, all’inizio sembrava una bella gita, avevano cantato, mangiato panini e caramelle e poi a un certo punto il padre si era fermato e le aveva detto di nascondersi tra i bagagli nel baule dell’auto. «Non ci voglio andare! Lì e tutto buio e ho paura». Allora il padre si era fatto serio e aveva alzato la voce: «Non discutere e fai come ti ho detto!». Angela era spaventata, non capiva, era arrabbiata con lui, ma si sforzò di tenere gli occhi asciutti e ubbidì. Del resto del viaggio ricordava solo l’odore nauseante della benzina, il rumore del motore e i sobbalzi per   le buche. Arrivati a destinazione non ne avevano più parlato.

Angela non capiva perché in quel posto ci fosse una legge tanto crudele, ma comprendeva di non avere scelta se non voleva far perdere il lavoro al padre o, ancor peggio, finire in un orfanotrofio di frontiera. Si muoveva per casa al rallentatore facendo attenzione a non far cadere nulla, anche un colpo di tosse o uno starnuto l’avrebbero messa in pericolo. Le era proibito accendere il fornello per riscaldare la pasta della sera prima per via dell’odore di cibo che qualcuno avrebbe potuto sentire e così era costretta a mangiarla fredda. Andava in bagno senza tirare lo sciacquone e, se proprio doveva, faceva scorrere solo un filo di acqua per lavarsi le mani. Reclusa in quei pochi metri quadrati a volte le mancava il respiro tanto l’aria era pesante. Fuori scorreva la vita e lei, segregata in quel locale disadorno, si sentiva morire.

«Devo essere forte, devo essere forte, il mio papà mi vuole bene e sa quello che fa», cercava di rassicurarsi, mentre le lacrime le rigavano il viso pallido per arrestarsi agli angoli della bocca. Con la punta della lingua le assaggiava. Erano calde e salate, erano la prova che lei esisteva. Quando rabbuiava aveva paura.  A luci spente, stretta al suo orsacchiotto, si sedeva in un angolo della stanza con le spalle al muro, le gambe al petto, una ciocca di capelli arrotolata tra le dita e gli occhi puntati verso l’ingresso, in attesa.  Le mancavano la scuola, i compagni e persino i compiti. Per far passare il tempo si era inventata un gioco con i tappi di sughero che disponeva a triangolo con la punta rivolta verso di lei e poi si posizionava a debita distanza cercando di colpirne il maggior numero possibile con una pallina di carta, le ricordava il gioco delle bocce che tante volte aveva visto fare agli adulti.  Le piaceva anche disegnare e rileggere il libro di fiabe che il padre le aveva regalato per i suoi sette anni, ma faticava a mettere a fuoco le parole e lo sforzo le causava un gran mal di testa. Forse aveva bisogno degli occhiali, come suo cucino Matteo, ma sapeva che nessun medico poteva visitarla perché lei era una clandestina.

Le giornate trascorrevano lente e monotone, ma quando arrivavano le quattro del pomeriggio tutto prendeva vita attraverso quel pertugio tra le tende di tessuto pesante. Giorgio era sempre il primo ad arrivare, si liberava della cartella gettandola a terra senza alcun riguardo e poi urlava qualcosa e dal balcone qualcuno gli buttava il pallone e così cominciava a palleggiare.  Con grande abilità passava la palla da un ginocchio all’altro lanciandola sempre più in alto senza farla mai cadere e con un colpo di testa, che le scompigliava la folta chioma bionda, la passava a Stefano che non era altrettanto bravo e puntualmente mancava la presa ed era costretto a rincorrere la palla fino in strada. Quando tornava era tutto sudato, i capelli appiccicati alla testa e i pantaloni che, senza cintura né appigli, scendevano sempre di più a ogni passo costringendolo a fermarsi per sistemarli.  Clara e Sara ridevano sempre e si divertivano a saltare la corda: prima in avanti, poi all’indietro, corda incrociata, corda laterale; facevano a gara a chi riusciva a fare più salti senza incespicare ed erano spesso infastidite dalla piccola Anna che ci voleva provare anche lei. Clara e Sara dovevano essere molto amiche perché non le aveva mai viste litigare, né farsi dispetti tipo tirarsi le trecce o slacciarci le stringhe delle scarpe o peggio alzare la gonna per far vedere le mutande con i fiorellini, come aveva fatto con lei quella cretina di Gianna in prima elementare, durante la ricreazione, facendola vergognare davanti a tutti. Paolo era il più timido, preferiva stare in disparte seduto sul gradino del marciapiede a guardare gli altri mentre mangiava una mela. Quel ragazzino le metteva un po’ di tristezza perché in fondo le somigliava molto.

Angela, nascosta tra le tende, fingeva di giocare con loro e ne imitava i movimenti, prima con la palla e poi con la corda. Mimava le loro risate e ascoltava le voci immaginando quello che si dicevano e rispondendo a sua volta, ma solo col labiale. In quei momenti era felice e scordava tutto il resto finché i suoi amici venivano richiamati a casa e tornava il silenzio.

Un pomeriggio Angela sentì palleggiare, si stupì perché era ancora molto presto; l’orologio giallo appeso alla parete, segnava le due. Curiosa si avvicinò alla finestra e scostò un lembo della tendina. Paolo si trovava al centro del cortile e tentava goffi passaggi con la palla. Forse quel giorno non era andato a scuola e voleva esercitarsi per fare bella figura con gli altri, pensò Angela osservandolo, contenta che si fosse deciso a uscire dal guscio. All’improvviso cacciò un urlo di dolore, qualcosa aveva frantumato il vetro e le era arrivato dritto in faccia. Angela si ritrovò a terra stordita. Le giungeva attutito un vociare che proveniva dal pianerottolo, pugni sulla porta. Qualcuno gridava parole incomprensibili e poi ancora altri colpi alla porta e la maniglia che si muoveva. Un liquido caldo le colava lungo il collo, la testa le scoppiava. Si portò le mani al naso che era gonfio e dolente. Cercò di mettersi seduta, ma non ci riuscì. Le voci non smettevano e i pugni alla porta continuavano. Lentamente provò a muovere la testa, prima a destra e poi a sinistra e fu allora che lo vide: incastrato tra il tavolo e il divano c’era un pallone, il pallone di Paolo.

Era spacciata, l’avevano scoperta. Le voci avrebbero buttato giù la porta e sarebbe arrivata la polizia e suo padre avrebbe perso il lavoro e lei sarebbe finita in orfanotrofio e tutto perché aveva disobbedito.

«Non lo farò più, non lo farò più, prometto!» e si svegliò, madida di sudore e con le lacrime agli occhi.

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